Riflessione sulla sofferenza nel Nuovo Testamento parte 4
Di don Francesco Leone
Dio può soffrire ?
Il Dio cristiano che muore sulla croce per salvare l’umanità tematizza la delicata questione della sofferenza asserita di Dio.
È una tesi teologica oggi molto diffusa che, rifacendosi al dato biblico, prende le distanze dalla teologia classica passata che, influenzata dalla visione greca della divinità, affermava piuttosto l’impassibilità di Dio: Dio soffre con e per gli uomini.
Tale posizione è oggi legata a fattori di tipo culturale, espressioni delle tragedie del XX secolo (teologia dopo Auschwitz), e al venir meno dell’ottimismo del XIX secolo: “solo il Dio sofferente può aiutare” (Bonhoeffer).
Superata la vecchia teodicea, nata per giustificare Dio, ora lo si descrive partecipe del dolore stesso.
Il recupero del dato biblico si rifà qui al tema del pathos di Dio, presente in particolare nella letteratura profetica, da non liquidare frettolosamente come antropomorfismo. Si veda, ad esempio, il pensiero di Abraham Joshua Heschel (1907-1972): ciò che l’uomo compie e vive non tocca solo la sua esistenza, ma anche quella di Dio.
Heschel si rifà al tema ebraico della discesa della Shekhinah (la presenza di Dio) che indica la condivisione di Dio con l’uomo della sofferenza, un suo esilio che poi sarà riscattato.
Tutto ciò indica il legame straordinario tra Dio e il suo popolo.
Non si tratta, in ogni caso, per Heschel di fare qui affermazioni circa l’essenza di Dio, ma di delineare un tratto nel suo porsi in rapporto con l’uomo.
Tutto questo, per la teologia cristiana, trova poi naturalmente conferma e compimento nella vicenda di Gesù di Nazaret.
Una teologia che non accetta il tema dell’impassibilità di Dio si colloca inoltre sullo sfondo e a partire dalle suggestioni di una filosofia del processo (Alfred North Whitehead e Charles Hartshorne) per la quale il cambiamento è la connotazione fondamentale della realtà.
Un riferimento alla compassione, patire-con, di Dio si trova nella Dominum et vivificantem n. 39 e in un documento della Commissione Teologica Internazionale (“Teologia, cristologia e antropologia”) del 1981 che segnala l’esigenza, da parte del popolo di Dio, di una divinità non solo onnipotente, ma anche compassionevole.
In realtà il riferimento biblico è duplice, nella Scrittura si possono trovare sia richiami alla compassione che riferimenti alla impassibilità di Dio (come in Es 3, 14; Mal 3, 6; Sal 102[101], 28; Gc 1, 17).
Dalla sofferenza di Dio alla sofferenza in Dio : Jurgen Moltmann
Sempre su questo tema Moltmann si oppone alla classica teologia occidentale apatica e ancor più al Dio dei filosofi. Egli contesta il riferimento alla due nature in Gesù per giustificare la sua sofferenza (avrebbe sofferto solo la natura umana di Gesù).
A partire dalla portata trinitaria della croce, Moltmann colloca decisamente la sofferenza in Dio.
Nel parlare di sofferenza in Dio Moltmann intende portare a compimento la riflessione giudaica che ancora non arrivava a tanto in quanto mancava ad essa il riferimento trinitario. Se la sofferenza è allora un tratto del Dio trinitario ne consegue che Dio non soffre solo nel suo rapporto con l’umanità, bensì anche in se stesso: la Trinità economica è la Trinità immanente .
Ciò è possibile se si intende la sofferenza come espressione dell’amore che perciò non indica una mancanza, impossibile a Dio, bensì una eccedenza, una eccedenza di amore.
Dio stesso vive la kenosi già nella creazione (la Shekhinah e lo Zim-Zum cioè l’autocontrazione di Dio che offre lo spazio per la creazione, secondo l’antica concezione cabalistica risalente ad Isaac Luria, seconda metà XVI secolo) che è espressione di amore, tanto più ciò avverrà nella redenzione che è il massimo dell’amore.
L’impassibilità di Dio
L’impassibilità di Dio si trova affermata dal Lateranense IV (DS 801), classicamente si dice che il Figlio di Dio ha sofferto solo per communicatio idiomatum.
Per Tommaso la passione non può essere attribuita alla divinità, Dio non cambia stato, non vi è in lui né dolore né tristezza, in Dio non vi sono passioni, non vi può essere una sofferenza che stia ad indicare una assenza di perfezione.
Tuttavia in Dio vi può essere gaudio o tristezza e anche amore, ma non nella forma di passioni, perciò impassibilità non significa indifferenza, come del resto attesta la Scrittura.
Si tratta, in prima istanza, di non trattare in maniera univoca questi termini, perciò si può dire che i sentimenti in Dio non sono delle passioni. Se è così, allora il patire di Dio non riguarda la sua essenza, ma il suo modo compassionevole di porsi in rapporto al suo popolo, all’umanità tutta intera.
Il Dio che salva nella sofferenza non cessa di essere Dio perché non è la sofferenza che salva, ma il fatto di poterla vincere, cosa che solo un Dio onnipotente è in grado di fare.
CONCLUSIONE
Questione evolutiva, problema del male e affermazione teologica della salvezza
Il problema del male presenta oggi il rischio di portare ad una decostruzione della teologia, data l’improponibilità dell’apologetica/teodicea di certa tradizione.
Il male resta cioè un enigma (GS 21-22) e lo si spiega solo in riferimento a Cristo, il che non toglie il suo velo di mistero.
Se anche non dobbiamo fare noi gli avvocati difensori di Dio non sarebbero da rifiutare le ricerche della scienza che parla sempre di male come un bene (del tipo: male per l’individuo e bene per la specie) e sostiene che il male nasce solo da un punto di vista che è quello dell’uomo, non dunque da un punto di vista assoluto. Perciò il male dell’uomo andrebbe sempre collocato all’interno della visione più ampia data dall’universo tutto.
In sede costruttiva della questione andrebbero ripresi i contributi di Pareyson e Cacciari.
Pareyson colloca il male in Dio stesso e la passione di Gesù ne è l’espressione manifesta, Cacciari parla di divisione, alienazione in Dio (chorismòs), perciò la kenosi ha la sua radice nell’essere stesso di Dio.
Ne consegue che la passione è la teofania della realtà divina e questa realtà ha a che fare anche con l’uomo, l’uomo che soffre, poiché egli è creato ad immagine di Dio. Ma per lo stesso motivo l’uomo riceve la parola di speranza che chiede proprio per l’evento della resurrezione che manifesta il ricomporsi del male in Dio e la giustizia restaurata.
Vi sarebbe un punto di vista diverso in cui il problema del male potrebbe risultare effettivamente risolto: è il punto di vista dell’Assoluto, un punto esterno la realtà che comprende il tutto e vede in profondità. Esso coglierebbe il senso degli avvenimenti negativi, del loro processo, della loro eventuale necessità o della loro insignificanza.
Questo tentativo di stampo hegeliano non può essere però proposto dalla teologia perché il suo prezzo è la rinuncia ad un Dio buono e provvidente. Il Dio della Bibbia non può essere questo!
Considerazioni teologiche
I tentativi di spiegare il male sono tanti: la reincarnazione attribuisce il male alla colpa per una vita precedente, c’è il dualismo che prevede un Dio cattivo responsabile. Lo spazio dato al diavolo lo carica della responsabilità (ma almeno trova una ragione).
Oggi non si può pensare che tutto il male sia semplicemente dovuto ai peccati degli uomini.
La posizione classica (male per la colpa dell’uomo) risente di una visione antica e statica del cosmo, pensa ad una condizione iniziale dell’uomo perfetta che poi si è rovinata.
Oggi il dato biblico va interpretato tenendo conto di un paradigma evolutivo offertoci dalla scienza.
Dio crea un cosmo che presenta continuamente disarmonia e disordine perché orientato ad una pienezza non ancora raggiunta.
In ogni caso è oggi problematica, in prospettiva, la dottrina dei doni supernaturali persi dall’uomo a causa del peccato. La morte, la concupiscenza andrebbero viste piuttosto come le condizioni di chi si è allontanato da Dio, perciò la salvezza non è tornare in una situazione prima vissuta, ma realizzare in pienezza il compimento a cui l’uomo è destinato nel piano di Dio. Del resto la salvezza promessa non è un ritorno al paradiso terrestre, bensì un andare al Regno di Dio definitivamente realizzato.
Solo in seconda battuta la redenzione rimedia un male passato.
Ne consegue che il problema deve essere spostato, non tanto da dove il male o perché il male, quanto piuttosto come superare il male e non lasciarci schiacciare.